In questo primo articolo che tratta della tutela della proprietà intellettuale nel food & beverage, tratteremo del marchio nei prodotti agroalimentari.
Dopo anni di ricerche, o per puro caso, avete elaborato la ricetta perfetta per una nuova “Coca Cola”?
Avete inventato un nuovo dolce combinando ingredienti esotici da ogni parte del mondo con un risultato inaspettato e straordinario?
O ancora avete scoperto che un raro frutto africano potrebbe fornire la base per un nuovo energy drink buono, sano e in grado di far tremare la “Red Bull”?
Bene, vediamo cosa si può fare per evitare che altri vi “rubino l’idea”.

Gli strumenti di tutela della proprietà industriale
Senza scendere troppo nei tecnicismi, basti sapere che l’ordinamento italiano ed europeo (in realtà in questo campo vi è un grado di armonizzazione molto elevato tra le legislazioni di tutti i Paesi del Mondo) mettono a disposizione di un ideatore creativo diversi strumenti di tutela.
Parliamo, in particolare, del marchio d’impresa, del brevetto, del disegno o modello ornamentale e, infine, del segreto industriale (ve ne sono altri ma non li tratteremo nello specifico).
Come dicevamo, in questo primo articolo l’attenzione sarà concentrata, in particolare, sul marchio d’impresa, su casi particolarmente problematici che esso può presentare e sui suoi rapporti con le indicazioni geografiche di qualità.
Tratteremo separatamente, invece, i marchi di forma e i modelli ornamentali.
Il marchio
Il marchio d’impresa è un segno suscettibile di essere rappresentato graficamente (ma può essere anche caratterizzato da suoni, colori, forme) e tale da distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli dei concorrenti (art. 7 Codice della Proprietà Industriale o C.P.I.).
Per essere validamente registrato – e usato – un marchio deve essere dotato di alcuni requisiti: novità (cioè non deve essere stato usato in precedenza come marchio, ditta o insegna per prodotti o servizi identici o simili), capacità distintiva (deve cioè essere composto in modo da consentire l’individuazione dei prodotti contrassegnati fra tutti i prodotti dello stesso genere presenti sul mercato) e liceità.
Il marchio ha una validità di 10 anni dal deposito della domanda ma è rinnovabile all’infinito (si tratta dunque di una forma di protezione assolutamente forte e vantaggiosa per l’azienda che ne detiene i diritti).
I costi variano a seconda che si richieda un marchio italiano, europeo oppure internazionale e a seconda di quante classi di prodotti/servizi si vogliano tutelare, in ogni caso spaziano da qualche centinaio fino a poche migliaia di euro (il che è estremamente conveniente, se si considera la durata potenzialmente infinita dei diritti di privativa industriale).
Nel settore food & beverage, si possono classificare i marchi secondo diversi parametri:
- generale (“Royal Unibrew”) e speciale (“Ceres”)
- espressivo (“Oransoda”)
- geografico (“Latterie Vicentine”)
- collettivo (“Amarone”) e individuale (“Masi Boscaini”)
- di garanzia o certificazione (“IFS Food”, “Halal Italia”)
- di selezione o raccomandazione (“Presidio Slow Food”)
- in serie o famiglia di marchi (“Oransoda”, “Lemonsoda”, “Pelmosoda”)
Problematiche dei marchi nel settore food
Un primo terreno accidentato dei marchi nel mondo alimentare è rappresentato senz’altro dai rapporti con le indicazioni geografiche qualificate, ovvero le denominazioni di origine protette (DOP) e le indicazioni geografiche protette (IGT) (es. “Prosciutto di Parma”) che, va ricordato, ricadono anch’esse tra gli strumenti della proprietà industriale, seppur in senso lato.

Breve parentesi: ad oggi la disciplina sulle indicazioni geografiche qualificate è racchiusa nei seguenti atti unionali:
- regolamento (UE) N. 1151/2012 sui regimi di qualità dei prodotti agricoli e alimentari (DOP, IGP);
- regolamento (CE) 110/2008 per le bevande spiritose;
- regolamento (UE) n. 251/2014 per i vini aromatizzati;
- regolamento (UE) n. 1308/2013 (O.C.M. Unica) per i vini.
Venendo al punto, innanzi tutto, è fatto divieto di registrare marchi individuali composti esclusivamente da segni o indicazioni che designano la provenienza geografica del prodotto/servizio (ex art. 7.1 lett. c) regolamento (UE) 2017/1001 sul marchio dell’Unione europea ed art. 13.1 lett b) del Codice della Proprietà Industriale – CPI). Questo per evitare di far credere al consumatore che vi sia un legame tra le qualità e le caratteristiche essenziali del prodotto con quel territorio. Se un legame vi fosse realmente, l’impresa farebbe bene ad associarsi ad altri produttori della zona onde richiedere una DOP o IGP alle quali, di converso, può essere concesso un marchio collettivo con la denominazione geografica di riferimento. La ragione è data dal fatto che, ragionando altrimenti, si garantirebbe un diritto esclusivo in capo ad un solo imprenditore di sfruttare la rinomanza qualitativa legata ad un territorio.
Si è appena citato il marchio collettivo, normalmente registrato da un Consorzio di Tutela.
Il marchio collettivo ha delle particolarità che vale la pena approfondire brevemente. Essi possono essere richiesti da qualunque entità privata collettiva, non necessariamente volta alla tutela di una indicazione d’origine qualificata, e sono normati dalla disciplina generale sui marchi. Godono tuttavia di una particolarità, preclusa ai marchi collettivi: possono recare menzioni geografiche. Per tale motivo, il legislatore ha previsto che il titolare debba dotarsi di un apposito regolamento d’uso, rispettando il quale qualunque privato può utilizzare il marchio stesso, pur se non associato o comunque parte del titolare medesimo.
Tornando al ragionamento sopra esposto, il motivo della deroga concessa ai marchi collettivi è chiara: non si corre alcun rischio di monopoli individuali sull’utilizzo di un nome geografico che rappresenti la qualità o la rinomanza di un prodotto. Inoltre, il regolamento d’uso e i controlli che obbligatoriamente devono essere svolti dal titolare al fine di verificarne il rispetto garantiscono il consumatore che la denominazione geografica effettivamente sia espressiva di un certo standard qualitativo.
A differenza di un’indicazione geografica qualificata, il marchio collettivo scaturisce da un atto di autonomia privata (non vi è l’intervento di istituzioni pubbliche quali il Ministero dell’Agricoltura e la Commissione Europea), la sua tutela è unicamente quella prevista dalla normativa sui marchi ma, in compenso, può riguardare ogni categoria merceologica (non solo alimenti).
A prescindere dai marchi collettivi, come detto, un marchio individuale non può consistere esclusivamente in una menzione geografica.
Vi è un’eccezione.

Quando il nome geografico è di pura fantasia e non vi è alcun rischio confusorio sul legame territorio-provenienza-qualità del prodotto, il marchio recante tale riferimento è concedibile (es. “Amaro Montenegro”, dove il riferimento al Montenegro non ha alcuna attinenza con una tradizione liquoristica particolare ed è pertanto escluso che il consumatore possa essere tratto in inganno sulle sue qualità dell’amaro legate al territorio montenegrino).
Più complessa è la questione dei rapporti di anteriorità e prevalenza tra marchi e indicazioni geografiche qualificate (art. 14 – Relazioni fra marchi, denominazioni di origine e indicazioni geografiche – regolamento 1151/2012).
In breve, si può ipotizzare lo schema come segue:
- La domanda di registrazione di una indicazione geografica qualificata successiva a quella di un marchio d’impresa o all’esistenza di un marchio di fatto usato in buona fede precedentemente in un territorio geografico per un certo prodotto, comporta la coesistenza di entrambi; se, tuttavia, il marchio è notorio, questo prevale e l’indicazione geografica qualificata non può essere registrata se possa indurre in errore il consumatore sulla vera identità del prodotto (art. 6 par. 4° regolamento 1151/2012).
- La domanda di registrazione di una indicazione geografica qualificata precedente rispetto a quella di un marchio d’impresa contrastante prevale su quest’ultima se relativa prodotti dello stesso tipo oppure in ogni caso in cui detta indicazione geografica conferisce il diritto di vietare l’uso di un marchio successivo; non richiesto pericolo confusorio.
In ogni caso, non possono registrarsi come DOP le denominazioni ormai divenute generiche e comuni, dunque non più distintive di un legale territorio-qualità, i nomi di una varietà vegetale o di una razza animale tali da indurre in errore il consumatore quanto alla vera origine del prodotto, nonché in nomi omonimi ad altri già registrati quali DOP/IGP (art. 6 stesso regolamento).
I marchi espressivi
Altro genere di problematica, che si riscontra soprattutto in questo settore, riguarda la sottile distinzione tra marchio espressivo, volto cioè ad esaltare o richiamare le caratteristiche del prodotto che, pertanto, è ammissibile, e marchio descrittivo che, invece, essendo una mera descrizione, è sempre vietato.
La distinzione, si diceva, è estremamente labile, (es. “Nocciolato” della Novi o “Nocciolata” della Rigoni di Asiago sono marchi validi, mentre “Mohito” per una bevanda alcolica e “Bitter” per una analcolica sono stati dichiarati nulli) e va ponderata con grande oculatezza. Il consiglio è certamente quello di aggiungere, al nome dell’ingrediente principale, un prefisso o suffisso che conferisca maggiore enfasi creativa al marchio (es. “Carciofotto” per i carciofi sottolio).
In alcuni casi, marchi originariamente deboli o comunque descrittivi si sono “rafforzati” grazie a campagne di marketing e comunicazione che ne hanno garantito risonanza e conoscenza presso i consumatori, con conseguente aumento di capacità distintiva (c.d. “secondary meaning”). È il caso della già citata “Oransoda”.
A volte, per tentare di aggirare il divieto di registrare marchi descrittivi, si utilizzano espressioni dialettali o in lingua straniera, ma ciò non vale a rendere la domanda di registrazione accoglibile se, nel mercato geografico di riferimento, quel nome ha comunque un significato noto o intuibile (es. “Batida” per il famoso liquore al cocco, marchio dichiarato nullo).
Tra i marchi espressivi, una categoria particolare è rivestita da quelli che alludono a caratteristiche nutrizionali o salutistiche dell’alimento, es. “Vitasnella”, “Misura” e “Fitness”, per citare i più noti.

Secondo il Reg. (CE) 1924/2006, i cc.dd. health e nutrition claim possono essere impiegati nella comunicazione delle caratteristiche di un alimento soltanto a precise condizioni (per le dichiarazioni sulla salute, per esempio, occorre attingere dall’elenco autorizzato ex Reg. (UE) 2012/432 rispettando, per ciascuna indicazione, le prescrizioni previste. Per creare nuove indicazioni occorre seguire un iter volto ad ottenere l’autorizzazione dalla Commissione Europea a seguito della valutazione scientifica dell’E.F.S.A.).
Per quanto qui di interesse, il regolamento Nutrition & Health Claims prevede che “Un marchio, denominazione commerciale o denominazione di fantasia riportato sull’etichettatura, nella presentazione o nella pubblicità di un prodotto alimentare che può essere interpretato come indicazione nutrizionale o sulla salute può essere utilizzato senza essere soggetto alle procedure di autorizzazione previste dal presente regolamento a condizione che l’etichettatura, presentazione o pubblicità rechino anche una corrispondente indicazione nutrizionale o sulla salute conforme alle disposizioni del presente regolamento” (art. 1.3).
È però previsto un regime transitorio (art. 27 par. 2° regolamento claims) per i marchi d’impresa registrati prima del 1° gennaio 2005 (cc.dd. “marchi storici”): anche se la presentazione e la comunicazione del prodotto non rispettassero la norma di cui sopra, possono essere utilizzati tranquillamente fino al 19 gennaio 2022. Dopodiché, per evitare le sanzioni previste dal D. Lgs. n. 27 del 7 febbraio 201, dovranno essere autorizzati dalla Commissione Europea, o rispettare il dettato dell’articolo 1.3, e dunque essere accompagnati da un claim autorizzato coerente col significato del marchio.
Sempre in tema di marchi espressivi, vanno citati brevemente i casi di quelli che “suonano” come se fossero prodotti sulla base di ingredienti che, in realtà, non hanno.

Gli esempi sono numerosissimi e riconducibili alle categorie di cheese e milk sounding, vietati in tutta l’Unione Europea come recentemente ribadito anche dalla sentenza della CGUE 14 giugno 2017, Causa C-422-2016: vietato il cheese sounding in quanto i nomi tipici dei latticini sono riservati a prodotti derivanti dal latte ex reg. UE 1308/2013 «O.C.M. unica» All. VII parte III.
Si tratta, chiaramente, di prodotti concepiti per attirare il pubblico vegetariano o vegano richiamando, maliziosamente, alimenti con ingredienti di origine animale (i vari casi di “Mozzarella senza latte”, “hamburger vegano”, “latte di soia” ecc.).
Per il meat sounding, in realtà, non sussistono ancora atti normativi né sentenze che lo vietino, ma la situazione è in costante evoluzione.
Il motivo del divieto è che nomi del genere possono confondere i consumatori sull’identità e sulle qualità di un alimento, portandoli a compiere scelte d’acquisto basate su percezioni errate, e dunque in contrasto con i principi generali d’informazione di cui al Regolamento (UE) 2011/1169.
Sono però ammessi, per questioni tradizionali e perché non inducono in errore il consumatore, le denominazioni “latte di mandorla”, “latte di cocco”, “burro di cacao” e “fagiolini al burro” (decisione Commissione UE 2010/791/UE).
Marchi e origine dell’ingrediente primario
Ancora, una breve riflessione va fatta in relazione al nuovissimo Reg. (UE) 2018/775, applicabile dal 1° aprile 2020.
Detto regolamento reca le modalità di applicazione dell’articolo 26, par. 3°, del regolamento (UE) n. 1169/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori, per quanto riguarda le norme sull’indicazione del Paese d’origine o del luogo di provenienza dell’ingrediente primario di un alimento (quello che rappresenta oltre il 50% dell’alimento – ingrediente primario quantitativo – o quello cui il consumatore medio associa generalmente il prodotto – ingrediente primario qualitativo).

Piccola premessa: L’articolo 26, paragrafo 3, del regolamento (UE) n. 1169/2011 stabilisce che quando il Paese d’origine o il luogo di provenienza di un alimento è reclamizzato, ma non coincide con quello del suo ingrediente primario, o nel caso in cui venga evocata (per mezzo di parole, disegni, colori o altro) un’origine/provenienza fuorviante dell’alimento e quella dell’ingrediente primario sia diversa, deve essere data indicazione al consumatore anche del Paese d’origine o il luogo di provenienza dell’ingrediente primario in questione, oppure si deve sottolineare che sussiste tale differenza.
Con il nuovo Regolamento del 2018, appunto, la Commissione ha specificato le modalità di applicazione di tale disposizione.
Anche in tal caso è stata prevista un’importante eccezione per i marchi d’impresa e per le indicazioni geografiche qualificate, non solo quelli già registrati, ma anche quelli che lo saranno in futuro. L’eccezione sta nel fatto che l’evocazione di un luogo geografico, contenuta in un marchio o in una DOP/IGP tramite scritte, loghi, disegni, colori o altro non fa scattare l’obbligo di specificare l’eventuale diversa origine o provenienza dell’ingrediente primario fino a quando non verrà adottato dalla Commissione apposite ulteriori norme specifiche.
Si pensi ad un marchio dal suono italiano per designare una passata di pomodoro confezionata in Germania, con pomodori sudamericani e che con l’Italia non abbia nulla a che fare: il prodotto in questione potrà continuare ad utilizzare pomodori provenienti da qualunque parte del mondo ed essere prodotto in Germania, avendo soltanto cura di precisare la dicitura generica “made in Germany”.
Anche noi italiani abbiamo le nostre colpe. Si pensi, ad esempio, allo Speck Südtirol IGP, la cui carne proviene da maiali di origine tedesca e che anche col nuovo regolamento non dovrà fornire detta specificazione.
Particolari categorie di marchi
Esistono infine particolari categorie di marchi, che menzioniamo solo per amore di completezza.
Parliamo dei marchi pubblici di qualità nazionali, regionali o locali, i quali sono registrati dallo Stato o da enti pubblici territoriali e possono essere usati per pubblicizzare prodotti agroalimentari che rispettino il relativo disciplinare di produzione, oltre a tutelarne l’origine territoriale. Un esempio su tutti: “Qualità Südtirol ”.

Ancora, vi sono i marchi di raccomandazione, marchi individuali concessi in licenza gratuita ad imprese che rispettino parametri qualitativi prefissati (es. “Presidio Slow Food”) o che possano vantare apprezzamenti e attestazioni di merito tra esperti o consumatori (es. “Certificato di Eccellenza Tripadvisor”, “Consigliato Gambero Rosso” ecc.).
I marchi certificativi sono invece particolari marchi collettivi utilizzabili solo in seguito a controllo da parte dell’ente (di diritto privato) che attesti che specifici prodotti o metodi produttivi siano conformi al relativo regolamento, il quale si occupa di fissare standard qualitativi elevati, come “IFS Food” e “VEGANOK”.
Citiamo brevemente la particolare categoria dei marchi storici (Capo III D.L. 30 aprile19, n. 34 – c.d. Decreto crescita), i quali sono iscrivibili su apposito registro speciale istituito presso l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi su richiesta di chi, titolare o licenziatario di un marchio d’impresa, lo abbia impiegato per almeno cinquanta anni continuativi per contrassegnare beni o servizi di un’impresa di particolare importanza. Se le condizioni previste dal legislatore sono soddisfatte, il richiedente può utilizzare il logo “marchio storico”.
L’obiettivo è supportare quelle aziende in crisi, intenzionate cioè a cessare l’attività o a delocalizzare, che rivestano interesse nazionale per storia, prestigio e per numero di lavoratori impiegati in Italia, sfruttando un meccanismo benefici/sanzioni: i primi, ottenibili da apposito fondo interministeriale a fronte di una serie di oneri informativi al Ministero dello Sviluppo Economico, le seconde applicabili a chi non rispetta detti oneri.
Marchi gustativi e olfattivi
In chiusura al presente articolo, infine, un veloce sguardo su possibili novità.
Nonostante il nuovo Reg. (UE) n. 2015/2424, entrato in vigore il 23.3.2016 e recante modifica del Reg. (CE) n. 207/2009, abbia innovato l’art. 4 eliminando il requisito della “graficità” della rappresentazione del marchio, ad oggi non sono noti esempi di marchi olfattivi o gustativi riconosciuti a livello europeo.
Gli ostacoli principali sono di carattere tecnico, e ciò vale soprattutto per i marchi gustativi.
Se, infatti, per individuare con precisione un odore potrebbe ricorrersi agevolmente alla formula chimica della sostanza da cui promana, i sapori non hanno ad oggi ricevuto un metro oggettivo di descrizione scientifica. Il sapore è, infatti, una sensazione soggettiva che dipende da fattori biologici oltre che emotivi ed esperienziali. Né sarebbe ipotizzabile il deposito di un campione dell’alimento, vista la sua deperibilità. Ciò senza contare ulteriori difficoltà nell’individuare i caratteri della novità e della capacità distintiva di un sapore.